Protesta profili DEA - Paolo Nardini

è in qualità di antropologo culturale, di studioso di tradizioni popolari, di professionista di una professione che si svolge sul terreno, a diretto contatto con la gente, che esprimo profonda amarezza per il disconoscimento del profilo di antropologo culturale, 
è in qualità di antropologo culturale, di studioso di tradizioni popolari, di professionista di una professione che si svolge sul terreno, a diretto contatto con la gente, che esprimo profonda amarezza per il disconoscimento del profilo di antropologo culturale, demologo, etnografo, nel recente processo di riorganizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. La soppressione del profilo di demoetnoantropologo fra le professionalità riconosciute al livello ministeriale provoca preoccupazione per il futuro dei corsi di studio nel mondo accademico, amarezza in quello istituzionale; maggiore senso di sconcerto, disappunto e disorientamento è avvertito al di fuori delle Università e delle Istituzioni, nel variegato mondo della cosiddetta società civile, fra le organizzazioni culturali di volontariato, le associazioni di studiosi, le pro-loco.
La storia degli studi demologici ed etno-antropologici in Italia è lunga e ricca di contenuti, e risale agli ultimi decenni dell’Ottocento, quando Giuseppe Pitré, palermitano, studioso di tradizioni popolari, realizzò la sua opera di raccolta di informazioni nel campo del folklore. È grazie a studiosi come Lamberto Loria, etnografo ed esploratore, che in occasione dell’Esposizione Universale del 1911, si sono potute confrontare per la prima volta le culture regionali italiane, i diversi dialetti, “l’itala gente dalle molte vite”, e che si è potuto creare il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, oggi Istituto Centrale per la demoetnoantropologia, con la quantità di oggetti della cultura popolare raccolti in quell’occasione. E più tardi sono stati studiosi come Ernesto de Martino a portare alla luce aspetti della cultura del sud inesplorati fino alla metà del secolo scorso; come Diego Carpitella ad arricchire l’Istituto Centrale per i Beni sonori e Audiovisivi, ex-Discoteca di Stato, delle registrazioni del canto e della musica popolare rilevati direttamente sul terreno. Per farla breve, la cultura italiana, nel corso di più di un secolo, si è accresciuta grazie al lavoro svolto sul campo da chi, prima di noi, accanto a noi, dagli istituti accademici come dal terreno, ha scelto come punto di osservazione quello del demologo, dell’etnografo, dell’antropologo culturale.
È perciò con profonda amarezza che apprendo la notizia dell’annullamento (che nel linguaggio ufficiale della Declaratoria viene indicato come “riassorbimento”) del profilo professionale di demoetnoantropologo fra le professioni riconosciute nel Ministero. Un “riassorbimento” all’interno della professionalità dello Storico dell’arte che non ha alcuna ragione di esistere, e che ha già un precedente (anch’esso non condiviso e oggetto di protesta da parte della comunità scientifica afferente alle discipline demo-etno-antropologiche) nell’affidamento della direzione del citato Istituto Centrale per la demoetnoantropologia ad un esperto di tale materia; un annullamento della professionalità antropologica che presuppone una riduzione del sapere demo-etno-antropologico italiano all’analisi del solo elemento estetico. Che non tiene conto del fatto che lo studio del folklore e della cultura degli strati sociali subalterni, non è riducibile ad un aspetto “artistico”, come un quadro, o una esecuzione d’orchestra: si tratta di complessi sistemi di credenze e di pratiche, di abilità, saperi e conoscenze della natura tramandate fra generazioni, di norme non scritte che regolano i comportamenti sociali ancor più nel profondo di quanto possa fare il più ricco e capillare dei sistemi legislativi ufficiali. Si tratta anche dello studio, della interpretazione, della valorizzazione dei beni cosiddetti “immateriali” o “intangibili” presi in considerazione in questi ultimi anni anche dall’UNESCO, perché divengano oggetto di tutela e dei quali sia estesa la conoscenza. Di beni, cioè, il cui studio è specificità esclusiva degli antropologi culturali, perché solo questi hanno sviluppato nei loro iter formativi e di pratica di ricerca, gli adeguati strumenti di comprensione e di interpretazione, strumenti di cui non sono provviste le altre professionalità.
Faccio perciò appello alla sensibilità delle Signorie Loro, convinto di interpretare il pensiero di tutti i colleghi che come me sono attivi sul territorio italiano come studiosi e come operatori culturali, affinché il “riassorbimento” del profilo demoetnoantropologico all’interno di quello dello Storico dell’arte, venga riconsiderato, e che alla professionalità dell’antropologo culturale, del demologo, dell’etnografo sia assicurato, nel massimo ente culturale italiano, l’adeguato riconoscimento.

Distinti saluti.

Paolo Nardini
 

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