René Capovin

Note di un (mezzo) antropologo veneto in Francia 

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Lingue

Squadra under 18, U.S. Santissima Trinità, stagione 1989-1990: Smiderle, Zanon, Capovin; Tagliapietra, Peron, Bastianello; Pietribiasi, Pornaro, Palvino; Namani, Dusi. In panchina: Fabris, Zocca, Morgan (non ricordo il cognome), Morelli, Bressan, Ferracin. Allenatori: Boscardin, Frigerio. Per metà basta il cognome a capire che vengono dalla zona, on, in, an. Alcuni sono oriundi, tipo Palvino e soprattutto Morelli (padre toscano, mamma friulana), che è l'unico a non parlare dialetto (anche se ovviamente lo capisce). Ma la lingua madre della squadra è un dialetto spesso allargato a tradurre l'italiano: tu sei fuori diventa a te si fora, e via così. L'italiano serve quando manca la parola. Per esempio, Bastian prima di giocare metteva le scarpe sotto la doccia. Ma parché? Parché le xè più «morbide» dopo. Quello che fanno i senegalesi quando parlano tra di loro e a un certo punto spunta un «casomai». L'unica frase in italiano che ricordo fu pronunciata da Toni Palvino alla vigilia della trasferta ad Asiago. Era l'inizio di marzo, il mister fa le convocazioni, Palvino se ne esce con: «Tùsi, òcio che se domènega ghe xè el sole, sarà da impazzire». Forse per punizione, domenica mezzo metro di neve. Palvino, sarà da impazzire. Palvino, sarà da impazzire. Così fino alla fine del campionato. Di quella squadra ad essere andati all'università siamo stati in 4, 4 o 5 facevano già gli operai, altri si sono aggiunti, due hanno fatto i baristi, un paio hanno aperto negozietti (uno di cornici, in centro), uno è muratore, un paio studiavano da geometri ma li ho persi di vista.

Settembre 2007, in Francia, anzi in Provenza, a Salon de Provence, con una donna che viene dall'altra parte della Francia, 1000 km. più a nord. Non conosco nessuno, il lavoro è in Italia. Bisogna entrare. Vado all'università, ma dopo poco combino disastri. Meglio lo sport, provo con il calcio. Domenica i campi sportivi sono aperti, un sacco di gente che gioca. Sono tutti arabi, non la passano mai, non li capisco, sono giovani e corrono troppo. Non ci sono le basi. Allora il basket, una squadra mista («loisir», cioè per divertirsi, niente partite ufficiali, gioca anche chi non sa giocare). Il responsabile è Christian, figlio di contadini spagnoli emigrati in Algeria e da là venuti in Francia quando l'Algeria divenne indipendente (un pied noir non ricco, di solito i pieds noirs sono i francesi che là erano sopra e qua sono finiti sotto). Joaquin, parigino, figlio di spagnoli scappati durante la Guerra civile. Nicholas, bretone. Jeremies e Manu, di Lione. Panos, greco. Thomas, belga. Jacques, nato in Israele (suo fratello vive là). Più altri 4 o 5 del posto, ma da una generazione non di più. In due anni non ho conosciuto nessuno i cui nonni fossero di qui (mettiamo entro un raggio di 30 km). A basket non ci sono arabi, credo di essere il più povero. A dirla tutta, sono abbastanza povero e vivo coi poveri: quartiere nord, les Canourgues, quando lo dico il viso di chi mi guarda cambia e mi vuol dire che dai, cambierà, uno si è rifiutato di rifarci il bagno perché l'ultima volta che è venuto qui gli hanno bruciato il camion, anche se in realtà noi abitiamo nella parte chic delle Canourgues, non nei palazzi dove ci sono le case popolari ma nei palazzi, un po' migliori, dove c'è gente che ha comprato o è in affitto. Si parla un francese senza accenti che non siano quelli di chi non lo sa bene (io e il greco). A parte Christian che fa il contadino (suo figlio ha fatto scienze politiche e fa stage a Londra e Bruxelles), Jacques che fa il camionista (esistono ebrei che non fanno i banchieri) e Cécilia che fa l'infermiera (ma a occhio il marito compensa), gli altri a quel che ho capito sono impiegati o tecnici: ingegneri, informatici, insegnanti, quadri di un qualche tipo, gente così.

Da una parte un villaggio con intorno fabbriche. 

Dall'altra uno spazio di servizi e lavoro evoluto o comunque «di concetto», con ai lati outsiders di vario tipo e, più in là ancora, arabi e affini. Certo ci sono anche le raffinerie, ma da Salon non si vedono e non si sentono

 

 


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