Claudio Rosati - Premio Icom 2012

Discorso di Claudio Rosati in occasione del premio Honoris causa di ICOM Italia 

Quando Alberto Garlandini, il nostro presidente, mi ha telefonato per comunicarmi la decisione di attribuirmi questo riconoscimento gli ho subito detto se erano proprio sicuri di quello che facevano. Che cosa ho fatto di così significativo per i musei? E che cosa posso dire oggi di utile a una riflessione alle colleghe e ai colleghi? L’esperienza, dice il filosofo, non ci fa saggi, ma tutt’al più esperti e non sempre anche questo è vero. Ho pensato, allora, che posso dirvi solo una cosa che ho sentito e sento tuttora autentica e alcune considerazioni che derivano da questa e che nonostante tutto, talvolta ho disatteso concentrandomi più su un’idea astratta di museo che sui processi che può generare. 

La cosa che sento rispondente al vero ha un’origine lontana. Paul Valéry dice che non c’è teoria che non abbia in sé una biografia. Ho visto il primo museo poco più di cinquanta anni fa. Avevo dieci anni. Il babbo mi aveva portato al Museo Stibbert a Firenze. Ho ancora vivida l’impressione provata di fronte alla cavalcata di guerrieri, ad altezza naturale, armati di tutto punto.  Salgari era lì. Poi nel tempo sono seguiti Pitti, gli Uffizi, tutti i musei fiorentini. Partivamo da Pistoia in autobus e andavamo a Firenze al museo. Quella generazione che aveva fatto la guerra, che aveva conosciuto fame e privazioni ci allevava come forse, oggi, non sappiamo più fare. Ho sentito potente quel medium affettivo. Il primo museo è stato una persona, mano nella mano. Ho ritrovato questa vocazione alla cura nella collaborazione con l’Associazione Crescere che organizza, da alcuni anni, incontri delle famiglie con il museo perché diventi domestico, familiare, perché quella soglia che divide, come è stato detto, interno ed esterno con la stessa nettezza di un sì e di un no, non sia un ostacolo insormontabile. Nell’esperienza che ho fatto con le famiglie al Museo degli Innocenti, al Museo di Leonardo da Vinci, al Museo Galileo, al Museo Civico di Pistoia, ho visto che basta poco. E’ come se i genitori avessero bisogno per andare al museo, che ha ancora un potere inibente, di una specie di coperta di Linus, di un oggetto transizionale. Determinanti, poi, nel buon esito dell’incontro, lo stare insieme ad altre famiglie, ma anche l’autonomia e la libertà di movimento. Le scienze cognitive ci dicono come siano importanti i primi anni di vita per la formazione futura, come le scelte dei genitori siano fondamentali per l’adozione di nuove pratiche. Si pensi a come la lettura a voce alta, la narrazione, la stessa manipolazione del libro siano importanti per continuare a coltivare l’amore per la lettura. Ho letto di recente che “andare al museo con la famiglia la domenica non è cultura”. Niente di nuovo sotto il sole. Vi ricordate che già qualcuno aveva detto che al museo si va la domenica con la famiglia come al cimitero. Certo, non è di per sé cultura se ci aspettiamo dal museo effetti taumaturgici senza aver fatto alcunché per cambiarlo e, soprattutto, senza averlo inserito in una trama di relazioni.

Claudio Rosati

 

Quando ero ragazzo la scuola non aveva attività didattiche nel museo. Azzardo un’ipotesi.  Se avessi scoperto il museo con la scuola forse sarei tra quei 6 italiani su dieci, al di sopra dei 18 anni, che non sono mai andati in un museo. Non è una provocazione, ma un’interrogazione che rivolgo a me stesso.  Come mai tanti dopo averlo conosciuto nel periodo scolastico, per tutta la vita non ci rimettono più piede? E’ la scuola che ha questo potere di Re Mida alla rovescia?  Un effetto paradosso rispetto a quello descritto da Pierre Bourdieu e Alain Darbel, secondo cui chi non avesse visitato un museo negli anni della formazione non vi sarebbe più entrato. Non lo so, ma è certo che troppe volte facciamo didattica senza pedagogia, tradendo la missione del museo e scimmiottando la scuola. Applichiamo male Dewey e la scuola attiva senza aver digerito Gentile. Credo che si debba riflettere su questi aspetti per recuperare anche una visione del museo che, ancor prima di luogo di conoscenza, è spazio affettivo, è luogo di relazioni, tramite tra le generazioni che ci hanno preceduto e le nostre, è un ambiente di benessere, dove dovremmo stare bene soprattutto con noi stessi, senza ansie di apprendimento.

Bruno Bettelheim dice che i musei servono a “incantare, soprattutto i bambini, a dare loro la possibilità di provare meraviglia, un’esperienza di cui hanno disperatamente bisogno”. E’ questa la condizione, diceva Bettelheim, che innesca la conoscenza. Spesso invece noi professionisti museali siamo sacerdoti di una chiesa che chiede non rispetto, ma fede. Nel film “I cento chiodi” Ermanno Olmi ci dice che cosa può comportare la venerazione del sapere che finisce per disconoscere l’uomo. La conservazione, imperativo categorico della nostra missione, se disancorata dal suo fine ultimo che poi è quello di sperare che un nostro simile riconosca l’opera come tale, diventa sterile. Possiamo conservare anche un canopo etrusco in un museo che non ha un visitatore, ma possiamo farlo solo credendo con convinzione che un giorno, forse, quando non ci saremo più, quella reliquia sarà guardata, vivificata dallo sguardo di un nostro simile.

“E’ successa al Louvre una cosa terribile”, scrive Alberto Giacometti. “Un tempo trovavo al Louvre le cose che amavo più belle della realtà, come fossero un’esaltazione della realtà (…). Oggi le persone che guardano i quadri mi stupiscono molto di più dei quadri stessi”. Persone e opere formano un paesaggio unico che ci meraviglia ogni volta per la sua armonia o dissonanza.  Quando guardiamo una foto di Thomas Struth, che si è posizionato in un museo di fronte agli uomini e alle donne che guardano un dipinto, sentiamo di essere di fronte a un’altra opera d’arte e non solo perché frutto del lavoro di un grande artista. Il pubblico, al quale diamo le schede per la rilevazione della soddisfazione, sono persone. E come tale dovremmo considerarle. Sono persone anche quando sputano su un’opera di Fontana come è avvenuto nel 2010 alla Galleria nazionale d’arte moderna a Roma. Trovo esemplare, a questo proposito, la reazione della soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli che a partire da quel “no” gridato con disprezzo dall’anonimo visitatore ha deciso di dedicare una mostra al concetto di taglio nel Novecento.  Ha esercitato l’ascolto che era possibile in quella situazione.

Un ascolto che si svolge sempre in uno spazio intersoggettivo, in un rilancio all’infinito di un dialogo che ricerca un punto di equilibrio. “Io ti ascolto” vuol dire anche “ascoltami”.   

Nel 2005 ho letto centinaia di commenti che i visitatori della Galleria dell’Accademia di Firenze hanno scritto sugli album che la direttrice aveva predisposto per coloro che avrebbero guardato il David insieme alla mostra “Forme per il David”, promossa in occasione del cinquecentesimo anniversario dell’opera di Michelangelo. Come reagiva il pubblico di fronte alle opere di Thomas Struth, di Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Robert Morris e Georg Baselitz? Mi si è aperto un mondo, forse prevedibile ma sempre stupefacente, di assoluti di ammirazione e di condanna. Non potevo risolvere la questione astraendomi da quel gruppo, basandomi sulla differenza “io” e “loro”, perché anch’io faccio parte di quella umanità. Le scritte che esprimevano l’irritazione per la profanazione di quel tempio manifestavano, a parer mio, una volontà di non restare esclusi proprio dall’arte che è a noi contemporanea, una volontà di comprensione; una richiesta, in definitiva, di democratizzazione dell’arte di oggi sentita come appannaggio di pochi.

I musei sono per le persone. Le invettive, talvolta lucide quanto compiaciute contro il museo, ci riportano all’autismo dell’opera, al parossismo da balzacchiano cugino Pons. Non ascoltiamo queste sirene che ieri ci illusero e oggi ci illudono. Non ho ancora letto che qualcuno di questi intellettuali abbia scritto qualcosa sul fatto che gli istituti culturali sono considerati per le finanze pubbliche servizi “aggiuntivi” e non essenziali, non espletati cioè a garanzia di diritti fondamentali, e che con il nuovo ordinamento delle Province scomparirà la competenza della cultura.  

 “Dietro le cose, le persone”, recita il sottotitolo di una bella mostra al Museo Pigorini, che sta da tempo, senza clamore, praticando un attento ascolto museografico, ma dobbiamo anche dire di fronte alle cose le persone.

James Clifford ha scritto che non c’è un’istituzione più europea e più borghese del museo, facendoci intravedere così gli agenti di una possibile crisi. Sicuramente il museo sopravvivrà a noi, anche se forse si evolverà in qualcosa che non riusciamo ad immaginarci. La sua è sempre stata, in fondo, una storia di fragilità e di critiche. Ma non mancano segni di speranza e credo che debbano essere visti là dove persone raccolgono i pezzi di una carlinga squarciata da un missile e decidono di farne un museo o recuperano da una discarica, come a Lampedusa, scarpe, lettere, oggetti dei migranti  e costruiscono memorie chiamandole “museo”. Queste persone testimoniano una democratizzazione dell’istituzione che nessuna comunità professionale può disciplinare o fermare. Danno soprattutto speranza al futuro del museo come luogo civile.

Simbdea, società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici.

c/o Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino
Piazzetta Antonio Pasqualino 5 - 90133 Palermo

CF: 03251180406
e-mail: segreteria@simbdea.it

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